Madide nuvole
convergono
verso un cielo caduto.
Cospargono
di timori i bagnanti
poiché il sale
tira la pelle e la
cristallizza
ed il sole che fu
la sfalda.
Ovatta umida
sfonda la sabbia
con gocce
partorite
di prepotenza.

Preparai la stanza
alle imbracature collettive,
perfezionai la dialettica,
affinai la lingua.
Imparai a stare
in mezzo alle aspettative altrui
piuttosto a mio agio,
pareggiai i conti con le mie gambe
così da non dovermi dispiacere.
Eppure ancora
aspetto gelida.

Cu tuttu stu scuru ca ha trasutu,
n’ammu manciatu li carni
e l’ammu rati a vinniri nta li ciazzi.
Marciannu e cantannu n’ammu calatu
li peggiu paroli
e i iatti n’annu taliatu
e n’annu mannatu
binirizioni.

Sogno di mezzo autunno

Avevo sognato
che l’acqua
mi entrava in casa.
Io,
mentre l’edificio
stava per crollare
dentro il mare,
salvavo,
ci provavo,
i miei libri.
Ma la fretta
mi opprimeva
e io non sapevo
quale figlio
sacrificare.

Fuori, in strada,
nessuno sapeva,
nessuno immaginava mai
che le mie stanze
si sarebbero
sbriciolate
e poi
adagiate
sul fondale;
ogni cosa mossa
e deturpata
dalle onde,
il cartongesso
imbevuto e tutte le carte
sfaldate.

Anzi,
il mio marciapiede pullulava
di tranquilla
quotidianità.
Alla mia destra,
nel frattempo,
un uomo in un grembiule bianco
apriva il cranio, con uno scalpello,
ad un nero che era
inginocchiato per terra
con la faccia poggiata
sulla seduta
di una sedia di paglia.
Nessuno si opponeva;
l’avrei fatto io sicuramente.

Ma ero oramai
sveglia.

Torace

Torace, cuore e mente,
di questi inverni il passo è breve.
Torace ha il cuore
e mente.
Mente agli animi tutto l’anno,
col sole e con le mani.
Con l’acqua,
piovuta o accumulata
in un grande abisso d’oceano.
Torace: il cuore mente.
Mancano gli occhi a questo cielo,
mancano i polmoni a questo respiro morto.
Mancano gli animi a popolare
i freddi grigi.
Torace;
tiene il cuore,
la mente è gelida,
sacrifica i pensieri;
mantiene le distanze
in quest’inverno d’acqua.

Sessione estiva

O gravità,
agisci contro la di me persona
in questo sabato mattina,
ed io non son padrona
di me stessa in questa umile brandina.
Son forse al sonno eterno condannata?
No, ma mi tieni come spinta e risucchiata
dallo mio guanciale.
Non vale!
Ho scritti latini che mi attendono,
pagine da memorizzare
per lo esame prossimo venturo.
In questo giorno duro
fammi alzare,
che le lauree da sole non si prendono.

Grazie
per ogni parola ogni virgola,
ogni segmento astratto
descritto
perfettamente.
Grazie perché l’ansia
non mi è passata,
perché il desiderio
dorme ancora
nel ventricolo.
Grazie
perché è passato un anno
ma paiono cento.

[Giorgio Faletti, 25/11/1950 – 04/07/2014]

Agnese

Non cede.
Resta in bilico l’essenza
e si porta i fiori al campo santo.
E ingoiarli tutti è il grave
e poi è facile
strozzare i venti,
gli occhi.
Mai rimproverare
l’animo mai incerto,
vendicare spiagge
e rincorrere stupri
è il gioco.
E io gioco
con lei col sole.
Con l’acqua svengo,
col sangue muoio.
Guardare,
perdersi,
ricordare,
dimenticare.
Mortificare e smettere;
sapere,
figlio del silenzio.
Immobile incesto
di una mente satura.
Realizzarsi è vincere.
E non scordare che la morte
è solo un parto del buio,
che risucchia e ti riporta
al buio
da cui siam venuti tutti.
E amerai Agnese
se manterrai
mente lucida,
silenzi,
polveri bianche morte,
acque pulite
e fiori fradici.
Se solo tornerai
ad abbracciare le notti
e tradirle
facendoti ingravidare
dal sole.